Tutti a Belluno!
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I racconti di Valentino Morello
Tutti a Belluno!
Il capogruppo Sandro Meneghìn, quando si vide davanti il vecio Bepi Martinazzo, perse quasi completamente la speranza di riuscire a salire sul treno con tutte le cose a posto.
"Cossa xéla ’sta storia dei biliéti?" tuonò Bepi Martinazzo, le mani sui fianchi (il fiasco lo aveva dato da tenere a Giulio Marcòn), il cappello che oscillava in equilibrio sulla testona, gli occhi affondati nel color mosto della faccia.
Il capogruppo balbettò qualche scusa: non era colpa sua, gli avevano promesso più biglietti e poi non glieli avevano più dati, c’era stato quello da accontentare, era l’ultima volta che si metteva in un pasticcio del genere, era pronto a dare il suo biglietto, se non credeva poteva chiedere al Presidente…
Per sua fortuna, mentre Bepi si lanciava a testa bassa all’attacco, alcuni volenterosi si misero in mezzo e il capogruppo riuscì a farla franca, confondendosi tra i “veci” in attesa di salire sul treno, il treno a vapore che andava da Treviso a Belluno a festeggiare il “Settimo”. L’ultima feroce insolenza che riuscì a sentire dalla tonante voce di Bepi fu un “… béco, fotùo!”; poi, mentre la banda suonava sotto la pensilina della stazione, trovò posto in un vagone e tirò il fiato soltanto quando la vaporiera, con un lungo pennacchio nero, si mise in moto.
Il treno parte da Treviso, ma… non tutti salgono!
Bepi e Giulio, con i compari Sante Battistuzzi (Santìn) e Oreste (Mustàcio) Commazzetto rimasti a terra anche loro perché “senza biglietto”, salutarono a lungo, per quanto immusoniti, il treno.
Dopo essersi passati più volte il fiasco per consolarsi, uno dei quattro disse:
"Quel che me fa incassàr xé che semo vegnùi qua par gnente a farse ridar drìo!".
"Cossa? – tuonò Bepi – gnanca par idea! Savé’u cossa che femo? Andemo su a Belùn in machina, cussì rivemo prima de lori e ghe la frachemo a quel insemenìo de capogrupo che no’l xe bon gnanca a contar i biliéti! Avanti, sbrighéve!".
Era cambiata l’ora legale, e Treviso sembrava ancora dormire, le strade erano deserte. In breve la macchina dei quattro compari filò sulla Feltrina
"Varda che te cori massa! Li gavaremo passài via, ormai!".
"Alora li spetaremo a Montebelluna, cussì ghe fémo le pernacchie!".
A Montebelluna non c’erano notizie certe, ma pareva che il treno fosse già passato,
"Sacranòn se i corre! - si meravigliò Bepi – Bén, fioi, bevemose calcossa, tanto i ciapémo a Cornuda!"
Dopo la prima tappa, rincuorati dalle prime “ombre foreste” – il fiasco era già stato vuotato all’altezza di Signoressa – ripresero gagliardamente il viaggio.
"Eccoli là!" urlò poco dopo – erano quasi a Cornuda – l’irrequieto Mustàcio, il più anziano.
Gli pareva di aver visto il pennacchio di fumo della vaporiera. Ma la stazione di Cornuda era deserta.
Santìn, nonostante il nome, tirò tante bestemmie quante ne aveva tirate quel giorno che la moglie, scivolando giù dalle scale, non si era fatta proprio niente.
"No importa! – disse Bepi – tirémo el fià, tanto no i ne scampa, quei là!".
Tutti d’accordo si infilarono in un’osteria, cavarono fuori dai sacchi pane e salame e, per non ingozzarsi, assaggiarono un bianchetto di Monfumo.
Rifocillati, ripartirono con entusiasmo. Mustàcio pretese perfino una sigaretta, con la quale tossì e starnutì per dieci minuti finché riuscì a bruciacchiarsi il baffo di destra.
La giornata era bellissima.
Sotto il sole videro, poco lontano, luccicare Valdobbiadene.
"Pecà esser fora man!" – sospirò Giulio.
"Fora man un corno! Paroni no ghe n’avemo!" e girarono a destra verso le rive.
"Femo presto, però – avvertì Mustàcio – i sarà ormai a Feltre!".
" Lassa che i corra! Do prosechi i ne metarà a posto el stomego!"
Giudiziosamente, non ne bevvero più di quattro a testa; con le bollicine frizzanti venne su qualche potente rutto e allora, soddisfatti, ripresero l’inseguimento.
All’altezza di Quero cominciarono però, a preoccuparsi: il treno non si vedeva.
"I sarà rivài" disse tristemente Mustàcio.
"Par mi, i gà avùo un guasto e i xé fermi a Levada o a Fenèr, o anca in meso ai campi!".
"La ghe stà ben!".
Per un po’ stettero in silenzio.
"Chissà invesse come che i se diverte dentro a i vagoni! I sarà drìo a cantar!".
"Ah sì? – sbraitò Bepi – e alora cantémo anca noaltri!"
"A mesanoote aaariva il cambiooo – acompagnatooo dal capopostooo…".
La macchina scivolò via, come sospinta dai canti; se non fosse stato per Giulio – che era stonato come una campana rotta – sarebbe stato anche un buon coretto.
Ma tutto quel cantare (l’ultima, poi, “sul ponte di Bassano”, era stata particolarmente impegnativa, anche perché Giulio si intestardiva a fare dei falsetti) mise loro addosso una gran sete: e, alle porte di Feltre, senza neppure degnare di uno sguardo la stazione, fecero tappa in un’osteria da cui veniva un invitante odore di luganeghe e polenta.
"Fiòi, sicome che me scampa da pissàr, voialtri scominsié che mi rivo subito."
Quando Mustacio, dopo un buon quarto d’ora, concluse l’operazione, trovò gli altri davanti ai piatti ormai vuoti: tutti e tre avevano un’aria beata e Giulio stava chiamando l’oste, che portasse altro vino. Mustàcio osservò:
"I sarà drìo far Messa, su a Belùn!".
"Ben, ben, sémo boni cristiani lo stesso. Vorà dir che rivemo per la cerimonia."
Dopo un altro litro, ripresero il viaggio.
Santìn disse che, per recuperare il tempo perduto, conosceva lui una scorciatoia, si lasciassero pure guidare da lui che conosceva quei posti come casa sua.
Dopo un’ora esatta di scorciatoie, erano ancora a pochi chilometri da Feltre, seduti sotto la pergola di una simpatica osteria dove il vino non era un gran che, ma la parona aveva un didietro che era la fine del mondo. Ordinavano “mezzi” litri alla volta, per vederla andar su e giù: era proprio ben fatta la parona.
"Ormai i gavarà finìo anca la cerimonia … Pecà, ghe tegnevo tanto a vedarla…".
Mustàcio era triste, a testa bassa guardava per terra. Bepi, per incoraggiarlo, gli diede una gran pacca sulla spalla e al povero Mustàcio schizzò fuori la dentiera.
Dopo aver proibito a Santìn di indicare altre scorciatoie, ripresero il viaggio. Belluno non poteva essere lontana.
"Ferma! Ferma! - gridò Giulio ad un certo punto – qua sta me compare Ernesto, demoghe un saludo!".
Il compare Ernesto aveva appena finito di mangiare e stava bevendo il caffè con la grappa. Baci, abbracci, cappelli alpini per aria: dopo un’oretta di grappe, mentre Mustàcio si era appisolato in un angolo, gli altri erano passati ai ricordi della Naja, e venivano fuori tenenti, capitani, muli, montagne, tutti gli amici dei vent’anni, chissà dove sono finiti, e chissà dove sono finiti i vent’anni.
Piano, piano si era fatta sera.
"Sacranon, bisogna partìr!"
"Ormai xé inutile andar a Belùn!"
"No importa, li ciaparemo tornando indrìo!"
Ma, forse perché a Giulio venne in mente di avere una sorella sposata a Fonzaso, e Santìn impose una birra a Pedavena, e a Mustàcio scappava la pipì nei pressi di ogni osteria, la strada del ritorno fu più lunga del previsto: e il treno non lo avvistarono mai.
Quando, a notte fonda, arrivarono a Treviso, c’erano ormai pochi “sbandati”, tra i quali il capogruppo che non riusciva a star dritto e giurava che non era per le ombre, era il treno che gli aveva fatto male sempre, anche da bambino.
"Lo portéu a casa voialtri?" chiesero alcuni compari, stufi di sorreggerlo.
"Se el paga el biliéto!" sghignazzò il Bepi, e lo caricò come un sacco di patate.
Finirono tutti quanti all’osteria del paese, ancora aperta per l’occasione, e fu gran baldoria a spese del capogruppo.
Dovettero, anzi, tener a freno Mustàcio che, recuperate le energie, voleva a tutti i costi tornare a Treviso per andare a bere l’ultima ombra dal Presidente Cattai!