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Trovar moglie

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I racconti di Valentino Morello
Trovar moglie



Erano quasi le due di notte, quando Sachét Camillo, di anni trentadue, con gli occhi gonfi e lustri, rosso in faccia per lo sforzo di cantare a piena voce: Venessiaaa tu sei bella – tu sei da maritar…, spalancò la porta di casa e si aggrappò agli stipiti, cercando di ricordare dove fosse finito il letto.
Allora, la Arcelide, che lo aveva aspettato come solo una mamma può fare, buttò giù i ferri e la lana e lo trascinò fino alla camera.
La mattina, quando Camillo si svegliò con la bocca impastata e la testa in fiamme, ebbe cura di riservare la prima parola alla Teresina che, la sera prima, gli aveva detto di no: e fu una parolaccia.
Rimase a letto fino a mezzogiorno, pensando alle sue disgrazie.
Da dieci anni cercava moglie. Aveva chiesto a decine e decine di ragazze di sposarlo; di tutte si era innamorato, perché era di temperamento sentimentale; ma, di quelle, nemmeno una gli aveva detto di sì.
Perché lui era contadino, e le donne non ne volevano sapere di vivere nei campi. Perché è fatica: e si puzza; e la casa non è mai pulita; e i figli vengono su selvatici; e si è fuori dal mondo; e così e così e così.
"Brutte schifose" ringhiò Camillo con la voce roca.
Non lo sfuggivano le femmine, perché era di bell’aspetto. Quando cercava moglie, Camillo Sachét era sbarbato con cura, aveva un bel vestito, le scarpe lustre e le unghie pulite; e la 1100 aveva tutte le comodità, anche la radio.
Le portava dove volevano: a ballare, a cena, al cinema; lui se lo poteva permettere e ci teneva a far bella figura.
"Questo è il vostro Camillo Sachét, donne!" voleva dire.
E quelle ci stavano, finché tutto correva così. Ma poi, quando il Camillo, dopo i balli, i pranzi, il cinema e le altre robe, offriva il cuore (la scena si svolgeva generalmente al chiaro di luna, sia pur schermato dai vetri appannati della 1100) la signorina di turno si irrigidiva e pretendeva di essere immediatamente ricondotta a casa.
Allora, il povero Camillo riaggiustava il cuore con una colossale sbronza, ed era, probabilmente, il rimedio migliore, visto che lo adoperava con successo da dieci anni.
Alla Arcelide faceva pena, quel figliolo; una nuora ci voleva, in casa, lei e il Menego erano vecchiotti. Tante robe da fare. Tanti gli anni. Rifiutare un partito così, quelle òstreghe.
Persa ogni pazienza, decise infine di intervenire.
Qualche giorno dopo l’ultima… delusione, chiamò il figlio e gli disse:
"Senti, devi proprio dire a tutte che fai il contadino? Dì che lavori in fabbrica, e quelle ti prendono subito!"
Al Camillo non pareva buona cosa dire la bugia; ma a furia di sollecitazioni e spintoni, un bel sabato sera l’Arcelide lo caricò sulla 1100 e gli intimò  di tornare vincitore.
"Auguri!" pensò la vecchia, quando la 1100 scomparve nella polvere della stradetta; e ritornò in cucina.
A mezzanotte, Camillo tornò fischiettando.
"È bionda?" chiese l’Arcelide.
"Mora. E si chiama Angelina." cinguettò Camillo.


La mitica 1100

Passò qualche mese, e il giovanotto rincasava sempre fischiettando.
E un giorno arrivò con la grande notizia: Angelina (la sua Angelina) sarebbe venuta lì, a vedere il futuro nido d’amore.
"Ma… le hai detto che…" chiese l’Arcelide.
"No, no, non ancora! Ma vedrai che…"
L’Arcelide si precipitò ad accendere ceri alla Beata Vergine che l’aveva ispirata e il Menego si prese una di quelle sbronze che i fedelissimi vecchi amici dovettero riportarlo a casa affondato in una carriola.
Quel fatidico sabato, partito (esultante) Camillo, con la “1100” infiocchettata e traboccante di mini immagini di Angelina che raccomandavano “non correre – vai piano – pensa a me”, l’Arcelide spolverò, lavò, scopò, pulì, strofinò come una dannata, affinché la nuora trovasse una casetta accogliente; il Menego era tirato a festa; fiori di qua, fiori di là; e la porta della stalla ben chiusa, che non si sentisse l’odore delle More.
Tramontò il sole, venne la sera.
"Come va che non sono ancora qui?" brontolò il Menego, che cominciava ad aver sonno ed era stufo del colletto duro.
"L’amore!" sentenziò l’Arcelide.
Venne la luna; e l’Arcelide pensò che la luna fa sempre scordare il tempo a chi si ama.
Passò la mezzanotte, e il Menego tirò un gran sospiro, una bestemmia e filò a dormire.
L’Arcelide tendeva l’orecchio, per sentire la 1100 se arrivasse; lontano, abbaiavano i cani.
Cominciò a innervosirsi, a saltare i punti della maglia.
Ancora niente? Niente.
"Sta calma – pensava – quelli non guardano certo l’orologio!"
Verso le due… sì, era la 1100.
Il cuore le finì in gola, buttò via la maglia e i ferri, si assettò il vestito.
Ecco, la 1100 si era fermata nel cortile.
Diede un ultimo sguardo alla cucina che tutto fosse a posto; poi con un radioso sorriso, spalancò la porta; e si trovò di fronte Camillo, che, con gli occhi lustri e il viso rosso, cantava a squarcia gola:
"Venessia tu sei bellaaa – tu sei da maritar!"

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