Storia di un cacciatore
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I racconti di Valentino Morello
Storia di un cacciatore
Una radiosa mattina di ottobre Adolfo Selvelstrèl, detto “el pacagnòso”, sistemò tutto attorno la ruota posteriore del motorino gran parte della gabbiette con gli uccelli da richiamo; altri ne aggiunse, sopra le prime, dietro la sella, quasi a formare un alto schienale, tutte assicurate tra loro con ingegnosi gancetti; in cima a questa specie di torretta piazzò la vecchia cagna, che riusciva a reggersi lassù solo grazie ad un’antica abitudine e a un devoto amore per il padrone; mise a tracolla la schioppa, avviò il motorino e partì, caracollando per la strada che portava al suo capanno.
La sorte, che per tanti anni lo aveva benignamente sorretto, quella mattina lo colpì duramente. Fu proprio mentre el pacagnoso abbordava spavaldamente una delle tante curve della ripida discesa verso i campi che gli si bucò una gomma: el pacagnoso piombò sulla ghiaia in un putiferio di gabbiette sfasciate, pezzi di motorino, fischietti da richiamo, cartucce, schioppa e guaiti disperati della cagna.
El Pacagnoso
Era da poco riuscito a ricostruire, con tanta pazienza e sacrifici, il suo capitale di cacciatore, due anni dopo, quando gli capitò una seconda disavventura.
Questa volta, giunto felicemente al suo capanno, aveva sistemato tutte le nuove gabbiette in una macchia di vite selvatica, sotto un grande pioppo: e se ne stava nel capanno, fremente nell’attesa.
Arrivò un merlo sulle rame del pioppo: el pacagnoso cominciò a puntare la schioppa col cuore in tumulto, ma sapeva che doveva attendere ancora; e infatti arrivò un altro merlo, e poi un tordo, e tanti passerotti, e poi ancora due o tre storni; ma, proprio quando stava per tirare la sua bordata sui bersagli delle rame più alte fu assordato da una specie di cannonata che veniva da dietro l’albero. Ci fu come un turbine di foglie spazzate via, e tutt’intorno piovvero pallini; guardò a bocca aperta, annichilito: la macchia di vite selvatica non esisteva più e, da un vicino campo di pannocchie, uscivano correndo frotte di cacciatori ben vestiti che urlavano:
"Ciò Grassiano! Ciò, Nini! Che bèo! Varda quanti che ghe n’avemo ciapà! Altro che i colombi de San Marco, questi xe osèi! Pecà che gavemo sbaglià quei su l’albero!"
Passarono altri due anni.
Con tanta pazienza e sacrifici, el pacagnoso era riuscito a ricostruire il suo capitale.
Stava percorrendo una stradicciuola fuori mano, col motorino attrezzato come al solito, quando dovette frenare, soprattutto con le scarpe, per non finire addosso ad una scolaresca delle elementari del paese, guidata da una graziosa maestrina. Accennò a un sorrisetto e fece per passare oltre, tirandosi da parte, ma fu bloccato dall’insegnante, che cominciò a dire:
"Bambini, vi ricordate che ieri vi ho parlato della caccia?"
"Sì!" risposero i bambini.
"È una cosa bella o brutta?"
"Brutta!" urlarono i bambini.
"E gli uccelletti devono stare prigionieri?"
"Nooo!"
E così, mentre el pacagnoso restava impalato a bocca aperta, gli occhi sbarrati, la maestrina e gli scolaretti si buttarono sulle gabbiette, le apersero ad una ad una e, mentre gli uccelli sciamavano via, battevano le mani e ridevano felici. Non era ancora mezzogiorno, e el pacagnoso non trovò di meglio che bussare alla vicina canonica.
"Don Augusto, par piassér! – disse quasi piangendo – el me benedissa la s’ciopa, parché no me ne va una de drèta!"
"Cossa? – tuonò don Augusto – benedire uno strumento di morte? Un’arma che distrugge le creature di nostro Signore? Dammela qua subito, e fila!"
Prima che l’altro potesse aprire bocca, gli strappò la schioppa dalle mani e scomparve sbattendo la porta.
Si dice che, di questi tempi, Adolfo Selvestrèl si aggiri per le rive dei torrenti, armato di una canna da pesca. Solo che ogni volta che lo assale la malinconia, soffia disperatamente in un richiamo per tordi rimasto, chissà come, intatto e le trote, è ben noto, fuggono dai rumori sospetti.