Lettera 22 - Sezione Alpini Treviso

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Lettera 22

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"LETTERA 22"
Vecchie macchine per scrivere

Montanelli e la Lettera 22

di Mattia Zanardo
Indro Montanelli ritratto da Fedele Toscani (padre di Oliviero) nei corridoi del "Corriere della Sera" in Via Solferino a Milano nel 1940
Un'immagine che è divenuta l'icona del giornalismo: il bavero del cappotto rialzato, il cappello un po' sollevato sulla fronte, una pila di libri e vecchi giornali a far da sedia, intento a pigiare con gli indici affusolati sui tasti della portatile posata sulle ginocchia. In questa posa, Fedele Toscani, allora fotografo di grido, padre di quell'Oliviero altrettanto noto per le pubblicità-choc della Benetton, colse Indro Montanelli nei corridoi del Corriere della Sera: correva il 1940 ed il giornalista, poco più che trentenne, era appena rimpatriato dalla Finlandia.
I suoi reportage sull'eroica quanto vana resistenza dei finnici contro l'Armata Rossa, ne avevano definitivamente consacrato la fama di inviato dal fiuto rabdomantico e dalla prosa smagliante. Al suo rientro, forse aveva scoperto che i venti di guerra avevano scombussolato il tradizionale stile albertiniano pure in via Solferino, così, non trovando altro posto dove scrivere il pezzo, si era accucciato lungo un muro.
Divenne, quella scena, l'emblema stesso del mestiere. E del mito, assunse anche i contorni un po' vaghi. Un esempio: tutte le didascalie, compresa quella del presente volumetto, riportano a mo' di spiegazione "Montanelli con la sua Lettera 22". Peccato che il modello in questione fu prodotto dalla Olivetti di Ivrea solo un decennio più tardi, nel 1950, su progetto di Marcelle Nizzoli.
Poco male, la sostanza del "mito" non ne viene intaccata. E l'imprecisione, in cui, peraltro, sono caduti anche prestigiosi colleghi, da Bettiza a Bocca, che Montanelli frequentarono di persona, nonché uno dei suoi più scrupolosi biografi, Marcelle Stagliene, è comprensibile, perché davvero la "Lettera 22" sarebbe poi diventata quasi un'appendice del maestro di Fucecchio.
La portatile della casa piemontese, la prima realizzata in Italia, sembrava fatta apposta per chi doveva andare a caccia di notizie ed inviare corrispondenze dai luoghi più impensati: compatta, essenziale ed affidabile, gratificata pure di un design assai innovativo, che all'epoca valse diversi premi.
Coperchio per il trasporto in dotazione, benché i cinque chilogrammi effettivi di peso impallidiscano al confronto dei computer palmari odierni.
Montanelli la adottò come insostituibile strumento di lavoro e non la abbandonò più per oltre sessant'anni di camera: lo accompagnò a Budapest nel '56, primo occidentale a raccontare la rivolta ungherese schiacciata dai carri armati sovietici; fu la prima a traslocare dopo l'aspro divorzio dal Corriere filo-sessantottino di Piero Ottone e Giulia Maria Crespi nel 1974 per fondare il Giornale; su di essa vennero tempestati i "Controccorente", gli affilati, stringatissimi corsivi che segnavano la prima pagina del nuovo quotidiano. Ma servì anche per la stesura di romanzi, pièces teatrali, sceneggiature di film, gli innumerevoli volumi della Storia d'Italia.
Ne possedeva tre, di queste macchine da scrivere, l'Indro nazionale, a quanto sostiene Roberto Gervaso: oggi, una la custodisce il sindaco di Milano, Albertini, le altre due fanno bella mostra di sé nei suoi studi, quello della casa milanese (ben noto anche al pubblico televisivo perché faceva da sfondo alle interviste che Montanelli rilasciava ogni settimana ad Alain Elkan) e quello della casa romana, che la Fondazione Montanelli Bassi ha ricomposto a palazzo Della Volta, nel paese natale.
Al Giornale, la porta dell'ufficio del direttore era sempre aperta ed i redattori, entrando all'improvviso, spesso lo sorprendevano a mulinare con le braccia sopra la tastiera, inseguendo nell'aria la prossima frase dell'editoriale. "Usa la mano destra come protagonista, la sinistra come antagonista- ha descritto lo spettacolo Giorgio Torelli, che del Giornale fu firma di spicco fin dalla fondazione-. E le fa battibeccare fra loro alla ricerca del dunque. Afferrato il bandolo, rituffa il lungo naso nella tastiera e smaglia la prosa. Che non è scevra di pentimenti. Molte righe risultano cancellate, ma senza astio. Semplicemente cassate con una righina filiforme di biro. Neanche gli spazi laterali del foglio sono mai rispettati. è tale la vocazione di Montanelli allo scrivere, che il corso delle parole- appena gli fluiscono- potrebbe continuare sul carrello dell'Olivetti, proseguire sul paralume e sul telefono, affacciarsi all'uscio del corridoio, formichine d'autore sulla moquette".
All'inizio degli anni ottanta, PC e videoterminali cominciarono a prendere possesso delle redazioni, ma il toscanaccio continuò imperterrito a rimanere fedele al suo "attrezzo" di scrittura, rifiutando, per privilegio d'età e di rango, di convenirsi a "quelle nuove diavolerie".
E sempre dall'inseparabile macchina dallo scafo azzurrino uscì il dattiloscritto per la "Stanza" del 4 luglio 2001, la risposta quotidiana che Montanelli dava ad un lettore da quando era ritornato al Corriere: fu l'ultimo articolo pubblicato in vita. Il principe del giornalismo italiano è morto il 22 luglio successivo, a 92 anni.
A chi gli chiedeva come gli sarebbe piaciuto essere ricordato, rispondeva: "E' stato soltanto un giornalista, che ha avuto un solo padrone: il lettore". Ed una sola macchina da scrivere, Olivetti Lettera 22.
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