La zima del Camòrz
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I racconti di Valentino Morello
La zima del camòrz
Tita Belòt era partito in piena notte dal paese, nel grande silenzio; su, oltre la valle, prima per l’umido bosco, poi per le crode, i salti, i baranci, le ghiaie.
Arrivato alla forcelletta (ove, di solito, si appostava) si fermò per prendere fiato e guardarsi attorno: la luce del giorno era ancora giovane, ma Tita frugò col binocolo tutti i “viaz dei camorz” , i sentieri dei camosci, le cenge erbose, molto in alto, dove i camosci vanno a pascolare.
Gardò a lungo, per moltissimi minuti: non vide altro che erbe e mughi e salti di roccia; poi, quasi all’improvviso, uscito da uno spuntone su un’invisibile sentiero, vide il camoscio. Allora Tita partì, dapprima di corsa, quasi saltellando, poi con passi più cauti, quelli consueti, quelli della sua gente; su dritto verso il suo camoscio.
Non lo vedeva più, ma lo sentiva vicino, vicinissimo; lo seguiva quasi d’istinto, saltando su rocce che non conosceva, per un sentiero che nessuno aveva percorso, respirando come poteva, nell’ansia di rivedere la preda più vicina, alla portata del suo fucile. Salì ancora (avrebbe voluto correre) su per un canalino franoso, e si trovò su una stretta cengia di cui mai aveva sentito parlare; la percorse di slancio, senza badare all’orrido che gli stava di sotto; e, dopo una paretina e una cresta; si trovò, quasi all’improvviso, su una vetta di una montagna che non conosceva, quasi una punta contro il cielo.
Ansimando, cercò il camoscio; lo vide molto più in basso, a gran salti, quasi nel buio dove (per chissà qual via) era fuggito.
Era l’alba, e Tita Belòt, dalla cima di quella montagna mai salita, guardò il sole che nasceva su tutte le altre montagne, quelle che conosceva benissimo; e, dopo la corsa dietro al camoscio, gli parve uno spettacolo bellissimo.
Tita Belòt sopra la “so zima”
Guardò i monti, i sentieri, le piccole case, i paesi nella valle; da qualche parte, laggiù, la sua gente, la sua casa, i suoi figli; lui lassù, molto in alto, a ridosso delle grandi montagne, su una cima che nessuno aveva conosciuto.
Al camoscio non pensava già più; era affascinato dalla sua conquista, questa punta di montagna che non era segnata sulle carte, che era su in alto ma non aveva un’altezza, che era vicina a montagne famose e non aveva neppure un nome!
Passarono bellissime ore per Tita Belòt, tutto solo sulla “sua” cima, beato di vivere, tanto che gli pareva di non aver mai visto il mondo così bello da altre cime.
Il brutto fu partirne: anche perché, in discesa, i salti di roccia parevano anche più minacciosi, la cengia molto più stretta, le prese meno sicure.
Arrivato, comunque, in paese, si precipitò in birreria a raccontare agli amici la sua avventura; ma nessuno gli credette e, anzi, lo beffeggiarono in molti, dicevano che stava bevendo troppa birra e contava balle, per non confessare di aver sbagliato il camoscio.
"Andé tuti su l’ostrega!" sbraitò a un certo punto il Tita.
Prima di uscire, lasciò andare verso i compari, in segno di protesta, una fragorosa pernacchia e partì, sbattendo la porta.
L’estate successiva, i compari lo vedevano tornare, ogni tanto, dalle montagne con un’aria talmente soddisfatta che faceva rabbia.
"Onde ’es’tu stàt?" gli domandavano.
E lui rispondeva beato: "Su la me zima, po’!".
Finché, due tra i più curiosi lo pregarono di portarli su questa benedetta “zima”; Tita non ne voleva sapere, ma quelli minacciarono di non pagargli più birre e allora, brontolando, se li tirò dietro. Erano di gamba buona, e salirono disinvoltamente le ghiaie e le prime rocce: ma, quando le cose si complicarono, ristettero a guardare il Tita che andava su come se niente fosse.
"Tita… ’es’tu segùr che la sìe chésta, la to zima?".
"Po’ sì!" rispose quello, salendo ancora.
I due compari si guardarono in faccia, e si videro pallidi pallidi: e uno provò a muovere un passo, e gli franò il terreno sotto il piede; l’altro provò una diversa via, e si trovò sopra un salto che gli fece rizzare i capelli; il primo, nel frattempo, pareva che non facesse altro che smuovere sassi e zolle, e ad ogni tentativo sentiva lunghi brividi correre per la schiena, e gli si era seccata la lingua.
"E alora! - urlò Tita, ormai in vetta – ole’u véde, sì o no, la me zima?".
"Ciéntela, la to zima!" gridarono i due compari, e scesero a riprendere colore e forze verso la valle, seguiti da Tita che saltellava e chiacchierava come in montagna non aveva fatto mai.
Nessuno più tentò di raggiungere la “cima del camorz”, e il più contento di tutti fu Tita Belòt, che poteva ben dire di avere una montagna tutta sua, che solo lui aveva toccato: e, per amore di quella “zima”, era quasi orgoglioso che lo chiamassero “el matt”.