La sèssola
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I racconti di Valentino Morello
La sèssola
"Me racomando che el lavoro sia fato ben!" disse el capitano da sotto la tesa del suo cappello di paglia.
Tirò due boccate di pipa, si riassestò sulla sedia e riprese a leggere un “Corriere” vecchio di dieci giorni.
"Gnanca parlar, sior capitano!" risposero Ico e Cencio.
Ed entrarono a grandi passi nella cantina, sbatacchiando le mani come per dire che ce l’avrebbero messa tutta.
Ico e Cencio venivano molto spesso e molto volentieri a lavorare nella cantina del “capitano”. Ico era mastro falegname e, come bottaio, valeva più di quanti altri attorno; Cencio sapeva far di tutto e non se ne poteva fare a meno. “El capitano” era un Ufficiale degli Alpini in pensione. Lo chiamavano così, in paese, da quando era venuto ad abitarci, tanti anni prima. Passava molte ore a leggere: d’estate andava a sedersi – con i suoi giornali sottobraccio – all’ombra di una pergola, vicino alla cantina; dal portico veniva un bel fresco e, qualche volta, il vecchio capitano si appisolava.
Quell’estate, assieme al vociare delle cicale, si sentivano le martellate di Ico e le fischiettate di Cencio; almeno fino alle tre del pomeriggio, ora in cui nessun rumore usciva dalla cantina. Dopo una mezz’oretta ne uscivano, invece, i due compari, con gli occhi piccoli piccoli, rossi in faccia e malfermi sulle gambe:
"Gavémo finìo, sior capitano – annunciava Ico – rivedersi a domani!".
Dopo aver tentato persino un saluto militare, prendevano le biciclette e, usandole come sostegno, senza nemmeno provare a salirci sopra, se ne andavano.
El capitano, oltre alla “spussa de vin”, fiutò presto anche il resto, e fece sparire i bicchieri, le boccale, i secchi che si trovavano in caneva.
Il giorno dopo, circa alle tre e mezzo del pomeriggio, proprio mentre el capitano se la rideva fra sè e sé, Ico e Cencio uscirono dalla cantina sorreggendosi a vicenda, biascicarono un “Buona note sior capitano!” e se ne andarono dimenticandosi le biciclette.
Ico e Cencio lasciano la cantina dopo il… duro lavoro
El capitano ci rimase sorpreso e, dopo averci pensato su, immaginando che avessero usato, per bere, gli imbuti, tappandoli sotto col dito, fece requisire tutte le impirie della cantina.
Il giorno dopo, alle tre e mezza, dalla cantina non uscì nessuno: anzi si sentiva perfino qualche martellata.
El capitano, col passare dei minuti, si sentì rassicurato: e si appisolò sulla sedia. Fu svegliato di soprassalto, dopo neanche mezz’ora, da un “Saluti, sior capitano!” dei due compari, che avevano grosse difficoltà a stare in piedi.
Il giorno dopo, el capitano (che non riusciva a capire in che modo gliel’avessero fatta) cercò di tenere gli occhi bene aperti, lottando contro il dopo-pranzo, la calura, la campagna e le cicale che gli portavano il sonno.
Ad un certo punto, con la coda dell’occhio (che teneva socchiuso a bella posta) vide farsi avanti sulla porta della cantina il Cencio, che dapprima lo osservò cautamente e a lungo, poi, come parlando a se stesso, disse a voce alta:
"Se solasse, sarìa ’na bela zornada!".
E sparì dentro la cantina. Poco dopo ecco uscire Ico: guarda il vecchio che pisola, dice:
"Se solasse, sarìa ’na bela zornada!"
E sparisce anche lui nella penombra fresca della cantina.
Dopo un po’ ne riescono entrambi cantando “la Gigiota” a voci spiegate, si esibiscono in un buffo saluto davanti all’esterrefatto capitano e se ne vanno allegrissimi.
Andò avanti così per qualche giorno, con la solita frase detta a turno; anzi a turno uscivano e rientravano più di una volta, ormai: ed erano alla fine sempre più in gringola.
Per quanto tollerante, el capitano ci perse la pazienza, anche perché era curioso di scoprire il trucco e il motivo di quella frase così strana, visto che c’era un sole da spaccar le pietre.
E così, un giorno, dopo che, vistolo appisolato, Cencio aveva esclamato la solita frase: "Se solasse, sarìa ’na bela zornada!" e si era rintanato in cantina, il capitano si levò su quatto quatto e, per quel tanto che gli consentivano gli anni, rapidamente gli andò dietro, nascondendosi dietro la porta, dalla quale poteva sbirciare.
E vide, allora, il recipiente che aveva dimenticato di requisire: la sèssola da mosto, che i due, a turno, riempivano di buon vino e, come fosse una gran coppa, vuotavano a grandi sorsate.
"Adesso toca a mi! – disse Cencio – va ti a vedar se el dorme ancora!".
"Vado, sì, e se xe tuto chieto, digo come al solito, cussì, anca se el se sveja, el crede che sia drìo parlar del tempo!".
E, ridacchiando soddisfatto, dopo aver lasciato andare un potente rutto, si avviò con passi guardinghi alla porta.
Il sorrisetto, però, gli si gelò in faccia quando si trovò di fronte al cipiglio del capitano, che lo scrutava di traverso.
"E alora Ico! – urlò, impaziente Cencio, dal fondo della cantina, con una mano allo spinello, e l’altra alla sèssola – che tempo falo? Se-solasse sì o no?"
"Pi-pi-piove a se-ci revèrsi…" balbettò Ico, tornando mogio mogio sui suoi passi, per consegnare anche l’ultimo degli espedienti per bere il buon vino del capitano.
Ma… sarà stato proprio l’ultimo?