L'amore
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I racconti di Valentino Morello
L'amore
Caio Venturìn, lasciato il motorino in mezzo alla siepe, in fondo al campo, aveva percorso a piedi, silenzioso e veloce, gli ultimi metri che lo separavano dalla casa della Rosina. Scavalcò il muretto con qualche difficoltà, per non rovinarsi le scarpe sui sassi, ma, in breve, saltò nel cortile. Non aveva neanche toccato terra che dovette mettersi a correre – come al solito – inseguito da quella peste di Peòcio, un cagnetto bianco che abbaiava anche alle mosche e che, se correva forte, si ingambarava sulle sue zampette.
Caio Venturìn, ormai abituato a saltare, di notte, tra i fagioli e le insalate dell’orto, si aggrappò alla vecchia vite che cresceva quasi attaccata al muro della casa; da essa, con un piccolo sforzo, fu sul primo ballatoio, un “piol” che scricchiolava per un niente, tanto era malmesso; da quello, per la piccola scala, passò al secondo “piol”; ansimando, facendosi largo tra i panni di bucato stesi sulla corda, arrivò alla porta della Rosina, ed era ora, perché gli sembrava di aver svegliato tutti, con quel fracasso. La Rosina lo aspettava, la Rosina era bella, la Rosina era il premio a tutte le sue fatiche.
Caio Venturìn inseguito dal can Peòcio
Il tempo di riprendere fiato e Caio e Rosina già facevano l’amore: ma piano, per non svegliare i “veci” che dormivano di sotto. Una delle prime volte, Modesto Dal Canton era uscito in mutande dalla sua camera quasi di corsa, gli pareva che di sopra ci fosse il terremoto.
"Vien dentro che te ciàpi fredo a la pansa" gli aveva brontolato la Jole, che qualcosa sapeva.
Passò anche stavolta, veloce il tempo.
Quando la luna fu appena più alta nel cielo, Caio Venturìn scese cautamente dal piol della Rosina, superò con prudenza quello di Modesto e della Jole, scivolò furtivo nel cortile, si infilò nell’orto e, nel più assoluto silenzio, aggirato abilmente Peòcio che dormiva vicino al pollaio, ritrovò il muretto e si calò fuori.
Qui, successe quello che gli succedeva quasi ogni volta, tanto che non tentò neppure di ribellarsi. Otto, dieci mani lo afferrarono, lo alzarono, lo fecero volare; si ritrovò, come tante altre volte, nel letamaio, a sguazzarci per uscirne il più presto possibile, mente le risate dei maledetti si perdevano nel buio dei campi.
Perché lui non era del paese, era da un paese lì vicino: ma se i giovanotti del posto vedevano che uno da fuori veniva a trovare una delle loro tose lo prendevano e lo buttavano nel letamaio.
Era una vecchia abitudine, così che la domenica, dopo la messa, dicevano alla Rosina, ridendo come matti:
"Rosina, a snasarti si sente profumo di violette: xélo un regalo del moroso?"
Rosina ci piangeva su, ma era innamorata del suo Caio, che faceva tante fatiche e tante corse e tante scalate per venirla a trovare; e sopportava anche di essere buttato nel letamaio, per amor suo.
Caio era innamorato, Rosina gli piaceva; però era stufo della faccenda, e soprattutto il finale non gli andava per niente.
Una notte, tornando mestamente a casa, sul motorino, lasciandosi dietro il solito tanfo, si imbatté per caso in un gruppetto di amici che la Catina aveva buttato fuori dall’osteria due ore prima.
Saputa la triste storia, commossi e indignati, giurarono di aiutarlo.
E così, alla successiva spedizione amorosa, Caio Venturìn fu accompagnato da una decina di ombre silenziose, che saltarono addosso ai giovinastri del paese e li scaraventarono, a loro volta, nel letamaio, che appena bastò a contenerli tutti: e toccò a Caio, stavolta, ridere di gusto.
Le incursioni notturne di Caio Venturìn non furono più ostacolate, e questo gli diede la serenità e il coraggio di chiedere la mano di Rosina a Modesto e Jole, i quali, pur di dormire in pace, accondiscesero di buon grado alle nozze.
Quello che Rosina non sapeva, andando sposa nel paese di Caio Venturìn, era che le ragazze del posto usavano buttare nel letamaio quelle che venivano da fuori.