Tempo di caccia - Sezione Alpini Treviso

Vai ai contenuti

Tempo di caccia

Fameja Alpina > I Racconti di Morello
I racconti di Valentino Morello
Tempo di caccia



Se un oculista si fosse preso la briga di guardar ben bene l’occhio destro di Toni Oseladòr, avrebbe notato, nella pupilla, due righette fra loro perpendicolari, come sono in un mirino: perché Toni Oseladòr era un gran cacciatore.
Viveva in una casetta nell’Alpago, con una vecchia cagna.
Una volta, aveva avuto anche una morosa, che si chiamava Luigina ed era ben messa di fianchi; pareva che si dovessero sposare, ma, quando lei gli confessò che non sapeva confezionare cartucce, lui la piantò.
Non aveva amici, perché la sua casa era una polveriera, e nessuno si sentiva l’animo di andare a trovarlo: bussare alla sua porta era più pericoloso che prendere a calci una cassa di esplosivo.
Ma Toni viveva ugualmente felice, perché possedeva un gioiello inestimabile: la doppietta. Ogni giorno Toni se la prendeva tra le mani, innamorato e orgoglioso com’era della sua schioppa, a coccolarla, lisciarla, pulirla da polvere inesistente; e con quel suo famoso occhio guardava dentro le canne, in controluce, estasiato dal luccicore; e certamente, là dentro, vedeva passare, a migliaia, lepri, fagiani e tordi; e l’occhio-mirino gli brillava più dell’acciaio della canna.


Toni Oseladòr con la vecchia cagna

Quando gli pareva che l’occhio avesse avuto la sua parte, imbracciava quel tesoro di schioppa e la puntava verso prede che lui solo vedeva: inquadrava la chicchera del caffè, la sveglia o una vecchia fotografia sulla credenza, tratteneva un attimo il fiato, con il dito che era un tutt’uno col grilletto e poi faceva "Pum! Pum!" con la bocca, ma piano, per non svegliare la vecchia cagna che dormiva.
Così, ogni anno, quando si apriva la caccia, Toni Oseladòr era più svelto, più bravo, più agile di tutti; eppure, ce n’erano tanti, con lo schioppo, sulle rive; sempre di più, ogni anno di più, ed era tutto un colpo, pareva una mitraglia, una guerra.
Un anno, Toni partì per la caccia con la sua adorata doppietta che sapeva di olio buono, ma senza la cagna, che era morta per i troppi anni e per le troppe corse.
Traversò il vallone e si arrampicò sulle rive, là dove nessuno andava; e poi salì ancora più in alto, dove lui solo sapeva che c’era sempre qualcosa; scese per le crode, girò per il bosco, si appostò due volte vicino alla sorgente, risalì verso gli abeti.
Una volta, era tutta una festa, con la cagna più matta di lui, le canne roventi della doppietta, le mani che frugavano nella sacca delle cartucce, i tordi che gli battevano sulla coscia.
Ed ora lo sorprendeva un silenzio che non c’era mai stato. Si fosse mosso qualcosa, l’occhio di Toni Oselador l’avrebbe visto di sicuro; ma non si muoveva niente, e il cuore di Toni non aveva i sobbalzi che, un tempo, gli dava l’avvistamento della selvaggina, e il dito accarezzava nervoso il grilletto, senza premerlo.
Si sentivano voci venire dal piano; ma l’aria non tremava di spari.
Quando il sole fu dietro la montagna, Toni era ormai davanti alla sua casa, con la doppietta che sapeva ancora di olio, e non di polvere.
Fu allora che alto, nel cielo che imbruniva, passò veloce, diritto, uno stornello. In un attimo, tutto il corpo di Toni Oseladòr fu in allarme: d’istinto, armò i cani, frugò il cielo con le lunghe canne, finché l’occhio mirino inquadrò perfettamente lo stornello; allora, i muscoli, i nervi, il cuore, il sangue di Toni parvero attendere un unico segnale, il dito si irrigidì sul grilletto, il respiro si bloccò, nell’istante che precedeva lo sparo.
"Pum! – fece Toni Oseladòr con la bocca, e parve un singhiozzo - va là, fa razza!"

Torna ai contenuti