La scodèla - Sezione Alpini Treviso

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La scodèla

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I racconti di Valentino Morello
La scodèla



"Chi xélo ’sto qua?" furono le prime parole che uscirono dalla bocca impastata di Fiorindo Barbacàn appena si svegliò dal coma profondo in cui – secondo la gente che gli stava attorno – era caduto; di fronte a lui, ricettario in mano, stava il dottore, chiamato d’urgenza per quell’accidente.
"Ma chi xélo ’sto qua?" tornò a chiedere Fiorindo.
Era tenuto fermo da un sacco di grasso che puzzava come sua moglie e, dunque, doveva essere la moglie; da un’esagitata che piangeva, che doveva essere la figlia; da uno che gli soffiava addosso, che doveva essere suo genero; e da una delinquente di passaggio, probabilmente una delle troppe cognate, una più delinquente dell’altra.
In realtà non era successo proprio niente. Nel pomeriggio, dopo aver a lungo parlato in cortile con una gallina a cui, ogni tanto, dava un pezzetto di pane, si era addormentato lì, per terra. Poiché, al tramonto, non dava segni di risveglio, era stato portato a letto; e il dottore, chiamato d’urgenza, aveva stimato “grave” un “ammalato” che - bastava annusare l’aria della camera - era solo pieno di grappa.
"Chi xélo ’sto qua?" tornò a chiedere Fiorindo.
"Sta bon, sta bon!" raccomandavano quelli che lo tenevano.
La figlia scoppiò addirittura a piangere e allora lui, a voce ben alta, disse:
"Ciò, insemenìa, invesse de frignar va a tor un gòto de vin par to’ pare e par ’sto sior qua!"
"Eh-eh-eh - fece il dottore – caro signor Fiorindo, il vino lo dovrà proprio dimenticare, sa? Io sono il dottore, e le assicuro che una bella curetta metterà tutto a posto!
"… el vin che?"
"Niente più vino!"
Per un po’ Fiorindo Barbacàn lo fissò incredulo (gli energumeni strinsero ancor più le loro manacce); poi con tutto il fiato che aveva in corpo – al dottore dovette arrivare anche una buona dose di grappa sotto forma di aerosol – urlò:
"Fora de qua, assassino, viliàco, spondrà! Altro che dotor! Lu, a torme el vin, el me copa, altro che guarirme! La s-ciòpa! Dove xela la me s-ciòpa?"
Il dottore era già lontanissimo, si vedeva una nuvola di polvere, fra i colli, nella sera.
Il giorno dopo, - gli stramaledetti erano tutti fuori a lavorare, finalmente - Fiorindo scese in cantina, tutto contento della sua libertà e di quello che in cantina avrebbe trovato; ma la porta era chiusa. Questo non era mai successo. Provò ad aprirla con tutte le sue forze: niente. Quando, a mezzogiorno, gli aguzzini tornarono, in tavola fu portata, per bere, dell’acqua. Fiorindo uscì a parlare con la gallina.
Per qualche giorno, Fiorindo tenne duro: aveva le scorte segrete: una bottiglia qua, una damigianetta là … ma quando le provviste finirono, le ore diventarono troppo lunghe e troppo tristi.
Un giorno era seduto sotto la vigna con il nipotino più grande, che aveva cominciato le Elementari.
"Cossa vàrditu, nono?" chiese Faustìn giocando con i sassetti del cortile.
Fiorindo stava guardando la nipotina più piccola, la Mariéta, che beveva il latte da una piccola scodella.
Mariéta, beveva il latte da quella scodella ogni giorno, seduta sulla panchina davanti alla casa; poi scappava a giocare nei campi, con un cagnetto piccolissimo che era il suo grande amico.
Qualche volta, inseguivano le galline, fino alla stalla, e Mariéta rideva come una matta; al nonno piaceva guardare le corse di Mariéta, di Faustìn e del cagnetto; ma adesso la sua attenzione era concentrata sulla scodella di Mariéta.
"Vien qua co’ mì!" disse a Faustìn.
(La Mariéta era corsa via per i campi con il cagnetto, dietro alle galline e alle nuvole, agli alberi, ai fiori e alle rondini).
Fiorindo arrivò alla panchina, prese fra le mani la scodella e la soppesò, la palpò, la misurò a lungo; alla fine espresse un grugnito di soddisfazione.
"Vien de qua co’ mì".
Nonno e nipote girarono dietro la casa, ove la cantina si apriva al mondo solo con una finestrina piccola piccola con le sbarre strette strette; tanto che non ci passava quasi niente, ma la piccola scodella della Mariéta sì!


Fiorindo Barbacàa ritira la scodella dal fedele nipote Faustìn

"Sta’ tento, Faustìn! Ghe votu ben a to nono? Sì, vero? E alora ’scolta: quando che te strùco l’òcio, fa finta de gnente e va in caneva, impenissi la scodèla de Merlòt, de Cabernèt, de Mericàn, de torcio, basta che el sia vin, e pàssamela de fòra, che mi te ’spèto! Varda, se fa cussì!".
Faustìn era un buon allievo e un buon nipote e, soprattutto, sapeva dove era tenuta nascosta la chiave della cantina.
Nei giorni che seguirono, al nonno venne una specie di “tic”; strizzava sempre l’occhio, e così Faustìn faceva passare molte volte la scodella della Mariéta attraverso la finestrina; dall’altra parte, dove nessuno lo vedeva, aspettava il nonno con le mani tese, sempre gagliardo nel vuotare una scodella dopo l’altra e sempre più in gringola.
"Ma come faràlo ’sto can de vecio, a bevar lo stesso?" si chiedevano i carcerieri, che neppure si accorgevano delle discese in cantina di Faustìn. L’unica cosa di cui si accorsero fu la sparizione della scodella di Mariéta.
"Cossa volèu che sia sta’- disse loro Fiorindo, in un raro momento in cui la sua gallina stava lontana a fare l’uovo – se vede che la gavarà rota parché a furia de bevar late ghe gèra vegnùo el mal de pansa!".

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