La graspa del piovàn - Sezione Alpini Treviso

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La graspa del piovàn

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I racconti di Valentino Morello
La graspa del piovàn



Gino Faghèr non poteva sbagliarsi: la vigilia di Pasqua, quando era andato a confessarsi per rendere il conto annuale dei suoi peccatacci, assieme alle parole che gli rendevano, ammonendolo, l’assoluzione, aveva avvertito da dietro la grata un leggero ma inconfondibile odore di grappa.
Correva voce, da tempo, che don Ménego usasse propiziarsi le serate con un bicchierino: lo facevano in tanti, in paese, ma si diceva che la grappa del parroco fosse di eccezionale bontà.
"Dal fià la xe proprio bona" garantiva Gino Faghèr a Nani Toffolon e Cencio Bisinèla, suoi compari di osteria.
"Quasi quasi vàe a confesarme anca mi" sospirò Cencio Bisinèla, che non entrava in chiesa da quando si era sposato trenta anni addietro, perché temeva gli potesse succedere un’altra disgrazia.
"Bisogna cucàrghela!" concluse Nani Toffolon con un’aria da cospiratore.
Detto fatto, presi rapidi accordi sul da farsi, l’indomani a sera si ritrovarono tutti e tre nei pressi della canonica.
Aspettarono pazientemente che don Mènego spegnesse la luce della sua stanza e di lì a poco, silenziosi come gatti, scavalcarono il muretto dell’orto e si infilarono in cantina.
Qui dovettero districarsi fra un mucchio di carabattole, vecchie sedie impagliate, banchi da chiesa sfasciati, una bicicletta arrugginita e perfino una statua di San Antonio da Padova senza un braccio.
In testa al gruppetto procedeva con sicurezza Gino Faghèr, il cui fiuto, in ricerche di quel tipo, era da considerarsi infallibile: e infatti sembrava un segugio che avesse annusato una ricca preda. Soffiando come un mantice, gli altri dietro fiduciosi, si fermò infine davanti ad una damigiana, posta in un cantuccio, seminascosta da una cassetta di patate.
"La xe qua! – annunciò trionfante – fà luce, Cencio!"
Si chinarono tutti e tre sulla damigiana, che portava attorno al collo un cartellino con su scritto “Acqua Benedetta”. Dopo un attimo di sgomento scoppiarono a ridere come matti.
"Fiol d’un can de un prete!"
"Varda che trovata!"
"Se lo sa Angelin el se mòrsega i déi da la rabia!"
Angelo Monech era un povero diavolo che faceva da sagrestano e da becchino; strabico, sciancato e balbuziente, non aveva altra consolazione che la sbronza giornaliera, e da anni era alla ricerca della grappa del prevosto.
"Co tuta l’aqua benedéta che el gà in sacrestia no l’ha mai pensà de tirar fora… questa."
"E sì che l’era facile!" aggiunse Gino Faghèr.
"Par ti sì, can dal porco – sghignazzò Cencio – che te snasarissi ’na botiglia de graspa anca in meso a na fogna!"
Ridendo e scherzando, aprirono la damigiana e cominciarono a mandar giù grossi sorsi, schioccando la lingua e mugugnando di soddisfazione.
"Senti che bontà!"
"Gino, te faremo un monumento!"
"Movete che me toca ’n’altra volta a mi!"


Le campane festose

Erano circa le due di notte, quando don Menego fu svegliato di soprassalto da un tripudiante sonar di campane.
"Mariaverginesantissima! – urlò – cosa succede?"
Infilata in un attimo la tonega, si precipitò trafelato verso il campanile, mentre in paese si accendevano luci nelle case e la gente si affacciava alle finestre.
La scena lo lasciò di stucco: attaccati alle corde delle campane, Gino, Nani e Cencio sganasciavano come matti e cantavano a squarciagola.
"Cossa fé-u, disgrassiati!" urlò don Menego sopra il fragore delle campane.
I tre compari mollarono le corde, ma non la finivano di ridere: solo quando l’infernale scampanìo andò quietandosi, uno dei tre si fece avanti barcollando e, soffiando come un bue, si piazzò davanti al parroco:
"Don Ménego… (hic)… che… bona che xe… l’aqua benedéta!"
E tosto scoppiarono a ridere tutti e tre da non poterne più, mentre don Ménego, fattosi pallido pallido, si staccò dalla porta, diede un’ultima occhiata fulminante ai tre che ancora si rotolavano dalle risate e rientrò fiaccamente in canonica.
Il giorno dopo, non si mosse dal letto, giacché gli era venuto un gran febbrone.
I tre compari, ancora in gringola dalla notte, premurosamente ne chiedevano notizie al povero Angelo Monech, che non aveva capito niente di quanto era successo.
"El xe in leto, poro can. No ’l vol magnar, no ’l parla. El xe palido come un morto."
"Se te vol guarirlo, daghe ’na bela squèla de late caldo co dentro un goto de aqua benedéta"  suggerì Cencio Bisinèla, strizzando l’occhio ai compari.
"Sul serio? Acqua benedéta?"
"Sicuro!" dissero tutti e tre assieme – vu-tu che a un prete no la ghe fassa ben?
Il povero Angelin seguì il consiglio: scaldò il latte, prese dall’acquasantiera un buon mestolo d’acqua e ce lo versò dentro. Fece le scale, entrò in camera con la tazza fumante.
"El be-beva, don Menégo, el  sentirà che ro-roba da far risussitare anca i mo-morti!"
Controvoglia, don Menégo si lasciò convincere e mandò giù un sorso.
"Cossa xela ’sta porcheria?" ringhiò facendo una smorfia di disgusto.
"Ma… ma… la xe la me-medissina par lu! La-late co l’acqua benedéta!"
Angelo Monech non seppe mai perché il parroco gli avesse tirato la scodella in testa: ma la febbre, pensò, può fare brutti scherzi. E, siccome gli era venuta una gran sete, andò a consolarsi in osteria.

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