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I racconti di Valentino Morello
El Capitèl



Piero Nadalét era stato ad Assisi due giorni, in gita col parroco, quattro suore e cinquanta compaesani, e ne era tornato a casa con l’anima in grazia di Dio, della Madonna e di tutti i Santi.
A parte il viaggio, i paesaggi, il Chianti e altre cose, quello che lo aveva impressionato era la Basilica di San Francesco, con tutte quelle pitture sui muri, con tutti quei colori, anche d’oro; lui se ne intendeva, ogni tanto un quadretto lo faceva anche lui, con le sue montagne, le baite, i torrenti, i pini. Una volta aveva anche venduto un quadro ma, con quello che aveva ricavato non era riuscito neppure a pagare una bevuta agli amici, e ci aveva rimesso.
Ah! La Basilica sì che era una vera chiesa, tutta affrescata! Altro che la chiesetta del suo paese, piccola e bianca, con niente dentro, che faceva freddo a guardarla! C’era solo una statuina di legno tarlato, in una nicchia, e, sulle pareti, quattro stampe scolorite della Passione!
L’idea gli venne un paio di mesi dopo, quando don Gilberto partì per la Svizzera a trovare gli emigranti.
Con una settimana a disposizione e con tutto quello che ricordava di Assisi, avrebbe fatto una bellissima sorpresa a don Gilberto e ai compaesani
Arrivò di buon mattino alla chiesa con un carrettino di colori e una scaletta, e si mise subito all’opera. In un primo riquadro, a sinistra entrando, stabilì di dipingere un’Annunciazione; nel secondo, una Natività; nel terzo, un qualche miracolo; nel quarto, una Crocifissione.
Al colmo dell’entusiasmo e della felicità, con gli occhi imbevuti dei ricordi di Assisi, Piero Nadalét saltellava per la chiesa con pennelli e colori e pareva proprio matto come un vero pittore.
Alla fine del terzo giorno le forze cominciarono però ad abbandonarlo, e anche l’entusiasmo. Non tanto per il fatto che la moglie, entrata due giorni prima, per portargli almeno una minestra, era quasi svenuta alla vista di quello che stava combinando, quanto perché il suo senso artistico non era propriamente soddisfatto. Le cose non erano andate come sperava, e tutto era diventato improvvisamente più difficile.
Tita De Nardin, il nonzolo, preoccupato per come andavano le cose, corse all’osteria, radunò gli amici e li guidò alla chiesa.
Appena spalancò la porta, per poco a tutti non era preso un colpo: Piero Nadalét era seduto in mezzo ai colori, tutto giallo rosso verde e blu, avvilito e tremante, come se avesse un febbrone. Tutt’intorno, una folla di personaggi con gli occhi storti, le bocche sbilenche, braccia, gambe e tutto il resto di proporzioni impossibili, e ricoperti da una generosa mano di porporina dorata, messa anche senza risparmio, a mo’ di scodella, su ogni cosa che potesse sembrare una testa. Dopo un lungo attimo di smarrimento, come se ognuno avesse intuito i pensieri degli altri, corsero tutti verso le proprie case e ne tornarono, poco dopo, con pennellesse e scale; e, in un giorno, occhi, nasi braccia e piedi sbilenchi scomparirono sotto una consistente mano di bianco, così che la chiesetta tornò come prima, e sapeva anche di buono.
Don Gilberto, rientrato dalla Svizzera, si rallegrò per l’iniziativa, e si disse felice per la lieta sorpresa. Alla predica domenicale lodò i compaesani-imbianchini, sebbene in cuor suo non riuscisse a capacitarsi del perché gli avessero fatto un simile piacere.
Pietro Nadalét era scomparso dalla circolazione.
La brutta figura lo aveva rattristato al punto che non si faceva più vedere in giro, ed anzi, si era rifugiato in una baita ben sopra il paese. Lì, del resto, aveva da fare. Era quasi il tempo della fienagione, e il lavoro gli aveva fatto seccare la tavolozza.
C’era però, da quelle parti, un minuscolo capitello, mezzo diroccato, appena spruzzato di calce; dentro, sotto un povero tetto di “scandole”, aveva una statuina di gesso, ormai senza forme, ma che doveva essere stata di Sant’Antonio. Quel capitello gli faceva compagnia, lassù in montagna, ed era sempre pieno di fioretti di tutti i colori: perché a Piero Nadalét piacevano tutti i colori, anche quelli dei fiori della montagna.
Un bel giorno, decise di mettere, nel suo capitello, i colori della sua tavolozza, perchè quei pittori di Assisi che pitturavano così bene le chiese gli erano proprio rimasti nel cuore; il capitello era piccolissimo, e lui sentiva che, questa volta, ce l'avrebbe fatta.
Non pitturò Madonne (troppo difficili!) né Bambini Gesù (difficilissimi!) ma un vecchio tutte rughe (facili!) a cui aggiunse (per evitare le difficoltà della bocca e della “sbessola”) una lunga barba; con un cerchio di porporina attorno alla testa, alla fine, pareva proprio un Santo. Ma, poiché gli sembrava troppo solo, gli affiancò un alpino con un bel cappello verde e una lunga penna nera, e gli venne proprio bene, perché di alpini ne aveva disegnati tanti, nei suoi quadretti di montagna, e ci aveva la mano.



Stavolta Piero Nadalét era felice! Aveva dipinto la sua Basilica, tant’è vero che, alla fine, ci mise accanto, in bella vista vicino ai fioretti (che non mancavano mai), una cartolina di Assisi.
Non si sa bene come, ma don Gilberto venne a sapere del “capitèl” col Santo e l’alpino; e salito lassù con tutti gli amici (quelli che avevano imbiancato la chiesa), fece un sacco di complimenti a Piero.
"Bravo! Bravo! Ah! Se te fussi bon de farme un pochi de Santi ’nte la ciesa che la è cussì vòda!"
"Per l’amor de Dio!  Fece Piero – òlo métar ’na césa co un capitèl? Però… ’na roba sì che la fàe!"
Tutti trattennero il fiato.
"Ghe regale la me “tavolossa”, che la pìche in césa come ’na oferta!"
Tutti tirarono un sospiro di sollievo; ma don Gilberto che sapeva essere riconoscente, promise che una volta all’anno, di quella stagione, avrebbe celebrato una Messa davanti al capitèl del Santo e dell’alpino, così che fece felici tutti: compreso, probabilmente, San Francesco d’Assisi.

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