Canto di Natale - Sezione Alpini Treviso

Vai ai contenuti

Canto di Natale

Fameja Alpina > I Racconti di Morello
I racconti di Valentino Morello
Canto di Natale



"Almanco la notte di Natale, bruti lasaroni, podarissi tornar a casa sénsa spussar da vin!" disse la Nena Batòcia piazzandosi, mani ai fianchi e petto in fuori, di fronte al solito tavolo dell’osteria dei soliti quatro “veci” alpini.
"Sta’ bona Nena e porta ’n’altra broca" disse Primo Perièch che, con la Nena, molti anni addietro, aveva avuto una certa confidenza.
"L’ultima! - grugnì la Nena – e, dopo andé fora dai piè, fioi de cani."
Suonavano le otto di sera, e i quattro compari erano là da mezzogiorno. La mattina erano scesi al paese, e ognuno ne era tornato con un pacchetto avvolto in una carta coi lustrini, stretta da un nastro. Si erano ritrovati, come per caso, davanti alla solita osteria. Succedeva quasi ogni giorno, che si trovassero dalla Nena: ma ognuno dei quattro, quella vigilia di Natale, aveva qualcosa da nascondere agli altri, fra le pieghe del pastrano: un pacchettino col nastro e coi lustrini.
Fu a metà dell’ultima brocca che Tita Bressan, il più giovane dei quattro, chiese:
"Fioi, cossa avéu comprà vojaltri?"
Gli altri finsero di non capire; ma Tita non poté trattenersi dall’annunciare:
"Mi go comprà un trenin par el me bocia pi’ cèo!"
"Rosso o nero?" chiese Primo, tirando avanti la testa.
"Blu, co le finestre de oro. E ti? Cossa àtu, in te quel paco?"
Primo diventò rosso come un papavero: "Prima vòi savér cossa che ha lu!" e batté la mano sulla spalla di Camillo Soppelsa, detto Bice, il più anziano dei quattro.
Bice si versò un altro gotto di vino, fece un po’ vedere il suo pacchetto e disse:
"Qua ghe xe la storia de Pinochio pal me nevodéto che va a scuola."
A bassa voce, Primo aggiunse:
"…e mi ho ’na bambola par la me Mariéta!"
Tutti risero, e Primo fu costretto a bere  due bicchieri  di seguito anche perché, dal banco dell’osteria, la Nena sghignazzava.
"E… ti?"
Si volsero tutti verso Gio Antole, che aveva un pacchetto tanto piccolo che poteva nasconderlo nella tasca. Gio non rispose, parlava sempre poco.
"A chi ghe portetu el regalo?"
Gio non aveva nessuno, a casa: né moglie, né figli, né nipoti.
"El avarà la morosa" insinuò Tita.
"Co’ quel muso?" disse la Nena.
"Vàrdate tì, simmia!" sbottò Gio.
Gli altri subito a ridere.
"Vàrdalo, come che el se ingrinta!"
"Gio, còpela!"
"Gio, xela mora o bionda?"
"Gio, quante tete ala?"
"Nena, vien a darghe un baso a Gio, che el xe inamorato!"
Succedeva spesso che finisse così, col Gio torvo e silenzioso e gli altri a ridere come matti; finché, anche stavolta, come altre volte, Gio si alzò e infilò la porta ringhiando:
"Andé in mona tuti quanti!"
Ci risero su, bevvero l’ultima ombra e partirono verso le loro case. L’indomani, Gio sarebbe sicuramente tornato con loro. Era un buon povero diavolo, e i suoi compari non lo avrebbero lasciato solo nemmeno un giorno.
"El xe fato cussì - diceva Beppe Soppelsa – co el beve un fià el se incassa par gnente."


La festa di Natale

Brontolando, Gio arrivò alla sua casa. Accese il fuoco, buttò giù un boccone e un paio di gotti. Poi fece spazio sul tavolo e, piano piano, cominciò ad aprire il suo pacchettino.
Ne tirò fuori una armonichetta, una "foleta" luccicante. Se la mise davanti e la guardò a lungo, poi la prese con delicatezza e la portò alla bocca: timidamente provò a soffiarci dentro, aveva visto che si faceva così; la prima nota che uscì gli distese il volto in un sorriso.
"Senti che ben che la sona!" gli venne da dire.
Uscì. Il paese aveva tante luci. Dalla armonichetta nuova dell’alpino Gio Antole, quella vigilia di Natale, partirono tante note felici verso la neve, il paese, le montagne.

Torna ai contenuti